Oggi raggiungere una vetta rappresenta una passione per tantissimi, ci sembra qualcosa di naturale, se non universale almeno molto diffuso. Eppure, “Trecento anni fa rischiare la vita per scalare una montagna sarebbe stato considerato pura follia. L’idea che la natura selvaggia potesse avere un fascino non esisteva. Alla cultura del Seicento e degli inizi del Settecento la natura appariva degna di interesse nella misura in cui esprimeva fecondità. Prati, vigneti, pascoli, i fertili solchi dei terreni coltivati: erano queste le componenti ideali del paesaggio. In altri termini, a essere bella era la natura domestica: il paesaggio cui l’aratro, la siepe, il canale di irrigazione avevano imposto un ordine umano.” Le forme irregolari e imponenti delle montagne erano in grado di turbare lo spirito, venivano considerate deserti privi di vita, repellenti dal punto di vista estetico. E poi erano pericolose: si pensava che bastasse uno starnuto, o il battito d’ali di un uccello per far staccare una valanga, si rischiava di essere inghiottiti dai crepacci, o di incontrare mostri o divinità. L’ostilità del territorio si materializzava, da pietra diventava qualcosa di angoscioso e incombente, in grado di scoraggiare chiunque provasse ad avvicinarsi.
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