Quante volte, durante una gita in alta quota, ci siamo ritrovati a riempire le borracce di acqua di sorgente, nella piena convinzione che l’acqua altissima sia anche purissima? Una nuova ricerca made in USA, condotta sul Tetto del Mondo, dimostra che non sempre esista una diretta correlazione tra quota e purezza dell’acqua, soprattutto se si parla di acqua di provenienza glaciale. Lo studio, di recente pubblicato sulla rivista scientifica Science of the Total Environment, rivela che tracce di metalli pesanti, derivanti da attività umane, siano presenti nel ghiaccio, nelle nevi e nelle acque della regione dell’Everest. Un grave pericolo per la salute di chi utilizzi tali acque per uso potabile.
Ghiacciai e acqua potabile
Nella regione dell’Everest il 65% dell’acqua destinata a uso domestico nella stagione pre-monsonica deriva dallo scioglimento dei ghiacciai. Sono circa 3500-6000 gli abitanti dei villaggi che dipendono da queste acque per la propria sopravvivenza e per l’irrigazione dei campi. Si aggiungano a tali cifre i circa 57.000 trekkers, alpinisti, team di supporto, che stagionalmente sostano al campo base dell’Everest e utilizzano come fonte idrica i corsi d’acqua che si originano dal ghiacciaio del Khumbu.
Lo scioglimento dei ghiacci comporta anche il rilascio di composti chimici immagazzinati nel tempo, alcuni dei quali risultano essenziali per gli ecosistemi nonché per l’agricoltura, in quanto vanno ad arricchire i suoli. Altri rappresentano dei rischi per la salute dell’ambiente e dell’uomo, come vedremo in questo caso.
Inquinamento ad alti livelli al campo base Everest
I ricercatori, coordinati dalla dottoressa Heather M.Clifford del Climate Change Institute, University of Maine, hanno analizzato la composizione chimica di campioni prelevati nella stagione pre-monsonica 2019:
- di acqua dei ruscelli alimentati dal ghiacciaio del Khumbu a una quota di 4300–5250 m;
- di neve prelevata tra i 5200 e i 6665 m su Everest, Lobuche e nella Imja Valley.
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